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PRATO – Insulti razziali, paga da fame, brevissime pause per mangiare e decurtazioni salariali. Imprenditore di origini campane condannato in primo grado a 2 anni di reclusione e alla multa di 500 euro per aver sfruttato lavoratori stranieri di origine nord africana.
L’imprenditore è colpevole, secondo i giudici del tribunale di Prato, che gli hanno applicato le pene accessorie dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese, il divieto di concludere contratti di appalto, di cottimo fiduciario, di fornitura di opere, beni o servizi riguardanti la pubblica amministrazione, e relativi subcontratti. L’imprenditore inoltre è escluso per due anni da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi da parte dello Stato o di altri enti pubblici, e dell’Unione europea, relativi al settore dell’edilizia.
L’indagine, coordinata dalla procura di Prato, è seguita alla denuncia di alcuni lavoratori africani che, ormai da qualche anno, operavano al servizio dell’organizzazione imprenditoriale diretta dall’uomo attraverso due imprese attive nel redditizio mercato del riciclo di capi di abbigliamento, settore nel quale, spesso, si sarebbero intromessi alcuni esponenti di clan camorristici.
Gli accertamenti investigativi, che hanno avuto l’apporto del Gruppo anti sfruttamento della Asl e dei carabinieri di Montemurlo, hanno ricostruito i tratti salienti di questa ennesima e, del tutto peculiare, vicenda di sfruttamento. Lavoro nero e contratti di lavoro da 4 ore al giorno anche se, di fatto, ne venivano svolte 9, con brevissime pause per la consumazione di un pasto frugale sempre all’interno degli stessi ambienti deputati alle lavorazioni. Retribuzioni pari a 600-700 euro al mese, nettamente inferiori rispetto alla soglia minima legale prevista dal contratto collettivo nazionale e del tutto sproporzionate rispetto all’impegno lavorativo richiesto, nessun diritto a ferie e/o assenze retribuite, con decurtazioni salariali di circa 50 euro per ogni giorno non lavorato. Una retribuzione non sufficiente, evidenzia il tribunale, “a garantire ai prestatori un’esistenza dignitosa, tanto che a volte non avevano neanche da mangiare”.
Queste condizioni, inoltre, venivano applicate in un contesto produttivo degradato e fortemente ammantato da una situazione di insicurezza cronica, come accertato dagli ispettori Asl. Da sottolineare è la “debolezza negoziale” palesata dagli sfruttati, ben nota all’imputato che non abrebbe esitato ad approfittarsene per trarne un proprio vantaggio economico a discapito delle vittime che, private dei diritti di base, non erano riuscite ad emanciparsi e a condurre un’esistenza dignitosa.
Al riguardo, il giudice ha addirittura parlato di un “trattamento ghettizzante a matrice etnica”, riferendo di una seria parcellizzazione dei lavoratori che avrebbe portato ad
un “trattamento di isolamento” nei riguardi dei lavoratori africani, allocati a debita distanza dalle altre maestranze così da occultare, agli occhi degli altri operai, il trattamento loro riservato.
Un caso emblematico, non solo perché vede tra soggetti agenti imprenditori italiani, ma anche per via delle modalità di attuazione. Le indagini hanno, infatti, evidenziato una sostanziale atteggiamento di discriminazione sul piano etnico, con i lavoratori africani non solo costretti a svolgere le mansioni più faticose ma anche, ripetutamente, oggetto di scherno, insulti razziali e scherzi di cattivo gusto, come quando, lo stesso imprenditore li avrebbe minacciati mostrando loro una pistola a salve, dando così sfoggio di un atteggiamento intimidatorio.
Il tribunale ha assolto gli altri imputati dell’area familiare dell’imprenditore condannato.