Uno dei temi più discussi degli ultimi giorni in ambito economico è stato lo stallo nella vendita di auto elettriche e l’approvazione di dazi sull’importazione dalla Cina. Per i dettagli vi rimando all’interessante reportage di Arte, riproposto su Internazionale.
Il tema è enorme, per la grande quantità di variabili e forze che agiscono su questa partita: la disorganicità delle politiche europee, le lobbying delle Case francesi, l’isolamento di quelle tedesche, la recessione dell’economia europea, il vacillante dominio americano, l’incapacità di realizzare nuove infrastrutture e il ritardo tecnologico occidentale. Ciascuno di questi temi sarebbe sufficiente a far scannare tra di loro platee di esperti del settore.
Proviamo a delineare uno scenario sulla base delle evidenze attuali. La situazione italiana vede oggi la sostanziale assenza dell’infrastruttura (pochissime colonnine), prezzi delle auto elettriche in media superiori di 15mila euro rispetto ai modelli a combustione e – talvolta – prezzi di ricarica elettrica che costano più di un pieno a benzina o diesel. Si tratta di problemi che si trovano in tutta Europa, perché la transizione “green” necessita di investimenti strutturali nel contesto dei quali l’auto elettrica è solo un capitolo secondario.
Il costo dell’energia elettrica è una variabile determinante per la sostenibilità economica del comparto industriale: ne è la dimostrazione la Germania che dopo il sabotaggio del suo gasdotto con la Russia sta pagando un aumento dei costi che è andato ad impattare pesantemente anche sulla industria automobilistica, a partire da Volkswagen.
Apriamo una parentesi proprio sull’energia, prima di proseguire la riflessione iniziata sulle auto. Il nucleare non è una soluzione facile ma solo un enorme problema. La fusione nucleare è ancora molto lontana, perché c’è ancora molto da lavorare sul contenimento del plasma. L’unica tecnologia utilizzabile attualmente è la fissione dell’uranio. I costi di questa tecnologia sono bassi solamente se andiamo a misurare il costo per chilowatt prodotto, ma diventano spaventosi se mettiamo nel conto la costruzione e soprattutto lo smaltimento e la gestione delle scorie (che No, non si possono più “regalare” a qualche Paese del sud o buttare in qualche buca nell’oceano Pacifico). Senza andare a scomodare Windscale/Sellafield e i costi in Francia, basti sapere che le scorie italiane dopo il referendum del 1987 ci sono costate finora 8 miliardi e siamo ancora ben lontani da risolvere il problema.
Una massiva elettrificazione del settore auto andrebbe ad aggravare il deficit energetico, aumentando di tanto il costo del chilowattora. In quest’ottica il caso della Norvegia, citato dal documentario come una eccellenza europea, in realtà è solo una fortunata eccezione. La Norvegia ha un reddito pro capite di 92mila dollari, un rapporto deficit/pil del 37%, una popolazione di 5,4 milioni e utilizza l’energia idroelettrica. Gli altri Paesi europei viaggiano con un debito doppio, popolazioni dieci volte superiori e producono energia da idrocarburi o nucleare. Con un’importante leva di aiuti la Norvegia ha sovvenzionato l’acquisto di auto elettriche, favorito il suo uso e installato (sic) almeno 60 colonnine per ogni luogo di ricarica: numeri impensabili dalle nostre parti.
La chiave per la sostenibilità del “sistema auto elettrica” (e non solo) ce lo ha dato in chiusura il medesimo documentario di Arte: “la ricarica è una sfida, ma non è impossibile: è fattibile, ma è necessario un certo numero di auto in circolazione prima che diventi commercialmente interessante investire in questo settore“.
Un settore, quello delle auto elettriche, che oltre all’assenza di infrastrutture e prezzi alti, vede un forte gap industriale: le batterie sono per il 90% di importazione e pesano per il 40% sul costo dell’auto, hanno una durata breve o perlomeno incerta e una grande dipendenza dall’elettronica (con relativi obblighi inevitabili di manutenzione). Si tratta quindi, ad oggi, di un prodotto abbastanza “alieno” dalla nostra tradizione industriale, legata alla meccanica e all’acciaio.
La presidente Von Der Leyen, annunciando l’istituzione dei dazi sull’importazione dalla Cina di auto elettriche li ha motivati come conseguenza dello “imponente aiuto di Stato cinese che tiene i prezzi artificialmente bassi“.
Il quadro attuale – limitandoci al settore dell’automobile – sta però dimostrando chiaramente che la regola della libera concorrenza – leggi “stop ad ogni aiuto di (un singolo) Stato” – sia diventata controproducente in una fase di transizione strutturale. L’industria automobilistica è rallentata troppo per essere competitiva: di conseguenza una parte di essa si è buttata sui comparti lusso esteri, mentre l’altra sta producendo restyling orribili e plasticoni rebranded (rimarcati) degni proprio dell’industria orientale di qualche decennio fa.
Se si vuole mantenere l’obiettivo di passare completamente alla trazione elettrica entro il 2035, servono investimenti infrastrutturali e aiuti di Stato, così come è avvenuto in Cina, e non viceversa.
Il trend è abbastanza chiaro: il “sistema auto elettrica” andrà a regime solo quando sarà adottata la guida automatica (i primi esperimenti in USA ci sono di già, tra taxi e prototipi). I mezzi a quel punto non saranno più di proprietà, ma diventeranno un servizio su abbonamento: auto che accompagnano l’umano e vanno poi via a parcheggiarsi. La ricarica a quel punto non sarà più un problema perché le auto andranno da sole a farlo o verranno sostituite nel servizio da altri mezzi con le batterie cariche. Un sistema di questo tipo – ingegnerizzato e logisticizzato – potrà bene coordinarsi con l’abbondante produzione diurna del fotovoltaico. Questo scenario necessiterà di almeno altri venti/trenta anni per realizzarsi.
Nell’attesa che vengano realizzati nuclei centralizzati per la ricarica di auto elettriche autonome, che fare? Vale la pena sventrare intere città per piazzare migliaia di colonnine dalla complicata manutenzione, magari a breve obsolete? Probabilmente No, e si andrà verso una proroga dei sistemi a combustione, a meno che a pagare non sia lo Stato al posto del privato.
Questo ci riporta al tema di partenza. L’asfittica industria europea – non stiamo qui a rivangare le sue colpe gravissime in tema di delocalizzazione e dismissione, a partire dalla nostra Prato – non può farcela da sola a riprendere posizioni perse, peraltro in un contesto geopolitico di declino dell’Occidente.
Altro che libera concorrenza, qui servono imponenti aiuti di Stato. In chiave economica lo Stato nazionale (in un contesto europeo) di fatto non esiste più, se non in funzione disfunzionale per produrre a costi minori e vendere a prezzo pieno. Sarebbe quindi opportuno introdurre quello che potremmo chiamare “Aiuto Europeo di Sistema”, un finanziamento/sostegno alla nostra industria con sede, proprietà e controllo “made in Europe”.
Ci sono interi settori da ricostruire: elettronica, materie prime, chimica, siderurgico; tutti quelli che rendono una (macro)nazione degna di questo nome. E tutto questo in attesa che maturino i tempi per le nuove transizioni tecnologiche portate dall’Intelligenza Artificiale. Veti particolari non ve ne dovrebbero essere – forse quello americano – ma al momento per gli USA il problema Cina è maggiore di quello di una Europa troppo forte.
Gianmaria Frati