Sanità pubblica o privata? Assicurazione sanitaria opzionale oppure obbligatoria? Esiste un modello ottimale? Ed è puro o ibrido?
A telecamere spente, la vicenda di Luigi Mangione ci dà l’occasione per fare una piccola riflessione su un tema enorme, e per niente avulso da approcci ideologici.
Dario Fabbri, brillante e competente analista di geopolitica, ci ricorda spesso che molti dei sistemi valoriali occidentali, che noi ormai abbiamo elevato a norme di diritto naturale, sono una conquista recente e spesso neppure accettati da altre culture spesso più popolose delle nostre.
Tra i sistemi valoriali, declinati all’europea, c’è anche l’assistenza sanitaria universale (tendenzialmente) gratuita. In Italia questo principio c’è dalla Costituzione del 1946, anche se il Servizio Sanitario Nazionale è stato introdotto nel 1978.
Una delle principali differenze tra Europa/Canada e Stati Uniti – pur essendo tutti nella sfera d’influenza di quest’ultima – riguarda proprio l’approccio alla sanità pubblica.
Qui in Italia il sistema (semplificando in modo brutale) è finanziato dallo Stato e dalle Regioni, con una contribuzione dei cittadini limitata ad alcuni ticket. I cittadini acquistano a carico proprio solo una parte delle medicine, non ritenute prioritarie per la salvaguardia della vita.
Si tratta di una scelta che porta con sé un pesante aggravio del bilancio. La compartecipazione all’Iva e la fiscalità regionale (Irap e addizionali) sono i capitoli principali per finanziare il sistema, assistiti poi da ticket sulle prestazioni e percentuali sull’intra moenia.
Guardando solamente alla Toscana, il risultato d’esercizio delle Usl è in negativo dal 2015, tanto che dopo alterne vicende, è stato deciso di spostare 330 milioni dall’esercizio ordinario per rimettere in pari i conti.
Le cause di questi costi sono molteplici. Semplificando anche qui in modo brutale, il rispetto dei livelli essenziali di assistenza, unito al costo del personale si somma al fatto che dobbiamo comprare quasi tutto all’estero a prezzi di mercato. La percentuale di cittadini anziani, quindi più propensi alla malattia cronica, aumenta poi di anno in anno.
I servizi sanitari interamente privati in Italia sono pochi e si limitano a fornire servizi di alta qualità ma necessariamente delimitati nell’area operativa. Qualche esempio può essere utile: ci sono centri medici per analisi, per visite specialistiche e alcune cliniche.
Le situazioni più gravi vengono però delegate e affrontate negli ospedali pubblici.
Negli Stati Uniti si è deciso – in linea col pensiero liberista anglosassone – di ridurre al minimo l’infrastruttura pubblica e lasciare alla iniziativa privata controllata dallo Stato l’esercizio della sanità. Per coprire le spese sanitarie viene utilizzato un sistema assicurativo privato, con il supporto di (limitati) programmi statali dedicati a indigenti e anziani.
Se nel sistema italiano ci si lamenta di molti settori (dentistico, riabilitativo, assistenza domiciliare e farmaci),
negli Usa da anni si denuncia l’abbandono, da parte delle compagnie assicurative, dei pazienti più costosi: quelli cronici.
Cronicità ed assicurazione non vanno d’accordo. Il motivo è semplice: il sistema dell’assicurazione si basa sulla aleatorietà. Le parti si accordano su una prestazione collegata al verificarsi o meno di un fatto. La cronicità (e la vecchiaia) rendono invece quasi certa l’attivazione dell’assicurazione e quindi l’alea di una prestazione diventa certezza. A ciò si aggiunga anche che l’autonomia contrattuale è da sempre una chimera: le parti da sempre non negoziano proprio nulla e una delle due si limita ad aderire alle condizioni fissate dall’assicuratore.
Su queste basi (contratti standard non modificabili, antieconomicità di un paziente anziano/cronico) ben si comprende come il sistema sanitario americano funzioni al meglio solo con le persone sane e diventi problematico per le persone più fragili.
In questo il modello europeo è nettamente superiore perché il pubblico si fa carico delle persone ‘antieconomiche’, spendendo somme superiori alle probabilità e tempo di vita del soggetto.
Per contro, un sistema interamente pubblico all’italiana è spesso ingolfato dalla gestione ordinaria della sanità: prevenzione, visite di controllo, analisi e prestazioni non urgenti. Tutte cose, quelle appena elencate, che in un ospedale americano vengono svolte a tempo di record.
Ma, è di tutta evidenza, che sentire chiedere a un codice rosso se è assicurato mentre entra in pronto soccorso fa una certa impressione.
Come comparare quindi un modello interamente privato all’americana con quello interamente pubblico all’italiana?
Il modello italiano (potremmo dire più nord/centro Italia) non è così cattivo come spesso lo si dipinge. Il sistema emergenziale è gratuito e la medicina di base fa da filtro. Rimangono da risolvere il problema delle cure intermedie (croniche e post-ricovero) per il quale si stanno avviando gli ‘ospedali di comunità’ e rimane il nodo delle liste di attesa.
Per queste ultime, il sistema delle convenzioni col privato funziona abbastanza bene: il pubblico delega sempre di più a centri medici verificati parte delle prestazioni che non riesce a gestire.
Le assicurazioni, alle quali per fortuna non è delegato l’impossibile costo dell’intera sanità, possono così andare a ricoprire il ruolo più corretto: la copertura dei costi dei servizi (più veloci e coordinati) erogati dai centri medici privati e dalla intra moenia.
Visite, analisi e prevenzione possono essere pagati dalle assicurazioni, andando ad alleggerire il sistema pubblico dai grandi numeri e farlo concentrare su emergenze e operazioni.
La progressiva diffusione in Italia delle assicurazioni sanitarie collegate al rapporto di lavoro, molto più leggere e sostenibili di quelle obbligatorie americane, è un buon segnale di un sistema ibrido che, se ben organizzato, può permettere di lasciare al servizio sanitario nazionale le tematiche più serie e l’ordinaria amministrazione a un privato dinamico e veloce.
Gianmaria Frati